DELLA STESSA MATERIA DEI SOGNI
Il coinvolgente progetto di Simone Martinetto intreccia, fra sogno e fotografia, una sensibile e raffinata catena di rimandi, tutta condotta per via implicita e indiretta, evitando così di scadere in un facile didascalismo illustrativo. Nessuna delle fotografie proposte da Simone racconta direttamente un sogno proprio perché tutte fondate sulla convinzione che più del legame esplicito vale quello implicito, vale cioè l’affinità elettiva che abbiamo visto esistere in profondità tra la modalità onirica e quella fotografica. Del resto non è un caso se Susan Sontag, confrontando la fotografia col Surrealismo, cioè col movimento artistico che più di tutti ha cercato di intrecciare la propria vicenda con la lezione freudiana, sia giunta a concludere che “La fotografia è la sola arte naturalmente surreale… [perché] il surrealismo è al centro della disciplina fotografica: nella creazione stessa di un mondo duplicato, di una realtà di secondo grado, più limitata ma più drammatica di quella percepita dalla visione naturale”. In altre parole, e per ricongiungerci con quanto stavamo dicendo a proposito del lavoro di Simone, alla fotografia non serve illustrare un sogno per godere in pieno dello stesso regime che caratterizza l’attività onirica. Tra i due processi esiste una sostanziale coincidenza di logiche procedurali che li rende emotivamente sovrapponibili.
Ma a fianco delle immagini c’è un altro elemento che si aggiunge ad arricchire il lavoro di Martinetto. Dalle fotografie scaturiscono voci e racconti che si intrecciano fra loro. Ogni protagonista ha ricordato un sogno tentando di tradurlo in parole. Le parole si affiancano alle immagini, ma nessuna delle due risulta effettivamente illustrativa dell’altra. A conferma di quanto appena detto sull’oniricità implicita della fotografia, o se si vuole sulla fotograficità allusiva dei sogni, c’è anzi un particolare che appare decisivo nel caratterizzare linguisticamente l’intero progetto. Le fotografie che narrano le singole storie preesistevano al racconto dei sogni. Simone le aveva realizzate in momenti e contesti diversi, senza neppure prevedere cosa un giorno sarebbero diventate. Ora le ha recuperate e semplicemente affiancate ai rispettivi protagonisti colti nel momento del sonno. Prelevate dall’archivio e risemantizzate a ready made, queste immagini paiono come ricongiungersi al loro destino, ritrovano a posteriori ciò che già in qualche modo misteriosamente contenevano. Appaiono, per dirla con De Chirico, quali autentiche profondità abitate, luoghi carichi di sensi imprevedibili che riemergendo fuori da ogni immediata necessità pratica, si intrecciano a maglia larga con le parole pronunciate nel presente. È così che non trovo modo migliore per concludere queste brevi righe di riflessione sul denso ma al tempo stesso leggero lavoro di Simone, denso e leggero come una vera poesia, se non affidandomi alle parole ben più autorevoli di Henri Bergson che riflettendo sulla funzione di riscatto svolta dal sogno (ma noi potremmo permetterci di aggiungere “e dalla fotografia”) su ciò che della nostra esperienza passata parrebbe assolutamente trascurabile o addirittura inutile se affrontato con atteggiamento pratico, così scriveva: “Ma se il nostro passato resta per noi quasi interamente nascosto essendo inibito dalle necessità dell’azione presente, ritroverà la forza di varcare la soglia della coscienza ogni volta che noi ci disinteressiamo dell’azione efficace per ricollocarci, in qualche modo, nella vita del sogno”. Assolutamente perfetto. Null’altro da aggiungere, se non tornare, felicemente, alle fotografie di Simone.
Claudio Marra